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In questi giorni Vittorio Sgarbi è sceso in campo a difesa della lingua italiana.

In un post su Twitter e su Facebook, il celebre critico d’arte propone la cancellazione di alcune parole  – a suo parere  – assolutamente da abolire.

E accetta suggerimenti per arricchire la lista delle parole da depennare, che si possono inviare direttamente a lui tramite i Social.

Ecco le parole incriminate: location, apericena, evento, sinergia, taggare, fashion.

Oggi, la lingua parlata è piena di “tossine grammaticali”, modi di dire o espressioni che sono entrate nel lessico comune, ma che fanno a pugni con la correttezza e la sensibilità linguistica.

Se ragioniamo nell’ottica dell’utilizzo della nostra lingua madre, dobbiamo ammettere che fashion e location hanno il loro rispettivo vocabolo italiano: perché non utilizzare questo?

Anche taggare è un inglesismo (con adattamento), diventato di uso comune nei social ma sostituibile in modo efficace con i termini segnalare o contrassegnare.

Apericena, moderna invenzione che nasce dall’unione di due parole, trovo invece sia inutile e cacofonica, una storpiatura senza alcun vantaggio, a meno che abbiate fretta!

Per ciò che riguarda le parole evento sinergia, oggi abusate, se utilizzate invece nel modo corretto e non metaforico, credo siano adatte a esprimere un concetto preciso: non vedo dunque il motivo di tanto orrore.

Buonismo

Non vi nascondo d’aver colto al volo l’invito di Sgarbi e gli ho scritto che aggiungerei alla sua lista la parola buonismo.

Anche un attimino, vocabolo in voga da qualche anno, direi che è fastidioso: non si differenzia dall’originario un attimo e porta con sé quell’idea di falsa gentilezza spesso inopportuna.

Buonismo è invece una parola che detesto, proprio per l’ampio uso ideologico che in Italia se ne è fatto da una decina di anni in qua e se ne continua a fare.

Tra l’altro è una parola squisitamente made in Italy, amanti come siamo noi degli –ismi, specie quando si tratta di affibbiarli agli altri.

Buonista sarebbe chi ostenta buoni sentimenti, anche in politica, colui che è tollerante fino all’ottusità.

Sinceramente, a me sembra che:

chi pretende di criticare l’ostentazione critichi in realtà i buoni sentimenti in quanto tali.

E chi accusa di ottusità il tollerante forse tenta di nascondere dietro un dito la propria intolleranza.

Piuttosto che

Ovvio che “queste parolacce” o anche veri e propri errori grammaticali (uno per tutti il diffusissimo ed errato piuttosto che usato in funzione alternativa, dunque al posto di una -o- , anziché in funzione oppositiva) non dovrebbero entrare nel vocabolario di chi di comunicazione vive.

Frequente anche l’uso smodato dell’avverbio presso, erroneamente utilizzato al posto della preposizione in quando indica un luogo e al posto di tra-fra per indicare un gruppo di persone.

In ogni caso, al sorgere di un dubbio, la cosa migliore da fare è quella di consultare un buon dizionario della lingua italiana o un dizionario dei sinonimi, sempre ottimi compagni di viaggio.

Le parole sono importanti mezzi per trasmettere emozioni e concetti e devono essere scelte con cura.

Perché ciò non avviene?

Per sciatteria, per eccessiva sicurezza, per mancanza di rispetto verso quel vincolo identitario più forte che tiene unito (o almeno dovrebbe) un popolo: la lingua.

E voi, quale altra parola aggiungereste alla lista?

 

Articolo a cura di Sara Soliman
AEsse Communication

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